È un periodo storico particolare, questo in cui stiamo vivendo. Non si può non riconoscere ai social network, specie con l’utilizzo che il neonato governo carioca ne sta facendo, un ruolo di assoluta influenza di massa. Nell’Ottocento e anche prima, ad esempio, l’ago della bilancia oscillava tendenzialmente in seguito alle tribune intellettuali che, metaforicamente, s’affollavano – nero su bianco – tra le pagine delle riviste culturali.
Oggi, invece, i pensatori e gli statisti hanno lasciato il posto agli “influencer”, anche se con ruoli istituzionalmente rilevanti a carico. Basta twittare o scrivere un post su Facebook per richiamare all’ordine i propri elettori e, nella maggior parte dei casi, per mettere in piazza le proprie idee, spesso cercando solo tristemente di condizionare l’opinione pubblica a proprio vantaggio.
Recentissima è l’origine di un’accezione diffusa, lungo i canali pixellati di Facebook – anche se palesemente errata – che chi è di sinistra debba necessariamente essere povero, o che quanto meno classifica come idealmente in conflitto con la sua natura concettuale chi è ricco, tacciandolo d’ipocrisia. Questa visione delle cose, proposta e mutuata dalle esternazioni social di Matteo Salvini e della collega Giorgia Meloni, dimostra il gravissimo problema funzionale che attanaglia tutta la suola dello stivaletto nostrano.
La realtà è che si rischia di confondere l’intento con lo status, che com’è facilmente deducibile dall’estraneità anche linguistica delle due parole, sono due cose diverse: l’ideologia di sinistra si pone come obiettivo principale la difesa dei più deboli – anche e soprattutto economicamente – e non di fare politica con poche risorse, cioè in povertà. Come potrebbe? È chiaro che per aiutare bisogna avere i mezzi.
Al di là delle riflessioni più specifiche – ossia provando a spingerci, per un momento, oltre le possibili analisi dell’operato degli ultimi governi – pare si stia perdendo di vista la collocazione teorica storica della sinistra, a furia di stigmatizzarla a colpi di Rolex e attici newyorkesi.
Karl Marx era figlio di Henrietta (o Henriette) Pressburg, zia degli industriali Anton e Gerard Philips, futuri fondatori della Philips, e Heinrich Marx ( a sua volta figlio di Marx Levi, rabbino di Treviri) avvocato ebreo, descritto come uomo colto e fine, educato nel pensiero del razionalismo illuminista.
Il padre di Enrico Berlinguer era l’avvocato Don Mario Berlinguer, Nobile e Cavaliere ereditario antifascista e vicino alla massoneria (come molti intellettuali laici dell’epoca), ufficiale durante la Prima guerra mondiale. La madre era Mariuccia Loriga, cugina della madre di Francesco Cossiga e figlia del medico igienista Giovanni Loriga, il quale fu autore di 120 pubblicazioni scientifiche in Italia e all’estero. La nonna materna di Enrico, Giuseppina Satta Branca, anch’ella di origini nobiliari, era sorella di Pietro, sindaco repubblicano di Sassari nell’età giolittiana con un’amministrazione progressista dov’era assessore anche il nonno paterno Enrico Berlinguer senior.
Insomma, Marx era ricco. E con la sua attività di filosofo e politico sicuramente ha accresciuto la sua ricchezza, già di nascita ragguardevole. E anche in casa Berlinguer non si stava poi tanto male.
Eppure, Marx ha teorizzato una delle ideologie più diffuse e complesse della storia della politica e Berlinguer si è battuto per affermarla, per lo meno in Italia, apportandone significative declinazioni e contestualizzazioni all’applicazione pratica. Arricchendosi sempre di più, tra l’altro. Entrambi. Com’è naturale che sia. Senza però smettere mai di “essere di sinistra”, al riparo – almeno al tempo – da inspiegabili accuse di “radical chic” manie.Perché se ho un tozzo di pane posso dividerlo in due; se non ce l’ho come posso pretendere di dare da mangiare a qualcuno?