Calcio ed investimenti, perchè puntare su di un sistema fallimentare?

È sotto gli occhi di tutti il processo di radicale cambiamento, che sta investendo il calcio italiano, sempre più obiettivo di investimenti stranieri, cinesi ed americani per lo più, che sono sbarcati in gran copia in tutte le serie professionistiche.
Perché tale invasione di capitali stranieri in un movimento sportivo, come il nostro, da lungo tempo vittima di una notevole e preoccupante asfissia?
Proviamo a fare i conti. Abbiamo una Lega di serie A composta di venti società, delle quali solo alcune producono utili – Juve e Napoli su tutte – mentre le altre vivono perché i loro presidenti, attraverso sponsorizzazioni o altri canali finanziari, sostengono aziende che – altrimenti – avrebbero dovuto portare, da tempo, i libri contabili in Tribunale.

Il calcio, dunque, tranne pochi e virtuosi casi, non produce affatto utili, anzi è una delle attività che genera debiti per definizione, nonostante i cambiamenti indotti dalla nuova legislazione in materia di società sportive.
Ci vorrebbe, quindi, una ristrutturazione dell’intero sistema: venti società di A sono troppe, come lo sono le ventidue di B e le sessanta, circa, di Lega Pro. Per generare profitti, bisogna internazionalizzare il prodotto calcio, per cui una partita del tipo Napoli-Sassuolo o Juve-Crotone non fa bene a nessuno in termini economici, mentre gioverebbe non poco una partita domenicale fra il Napoli ed il Barcellona o la Juve ed il Psg.
Ovviamente, restringere la serie A ad un torneo di élite di livello europeo significherebbe farvi partecipare solamente le società attualmente in attivo ovvero quelle che rappresentano grandissime città, mentre verrebbero tagliate fuori quelle che rappresentano centri di provincia oppure quelle che non hanno alle spalle grandi capitalisti. Il Sassuolo, ad esempio, è oggi una società molto fortunata, perché, pur rappresentando un piccolo centro di provincia dell’Emilia, ha come proprietà il Presidente di Confindustria, nonché leader del gruppo Mapei.
In tale ottica, pertanto, non ci sarebbe spazio nel torneo europeo per squadre, come Crotone o Carpi, che hanno affrontato la serie A non avendo a loro disposizione, neanche, lo stadio, visto che l’impianto comunale, che ha ospitato le loro partite nelle categorie inferiori, non ha l’agibilità rispetto ai parametri previsti dalla massima serie.
Si può, quindi, continuare a vendere un prodotto calcio in siffatte condizioni?  Ed, allora, si torna alla domanda iniziale: perché ci sono investitori esteri, che continuano a portare i loro dollari in Italia, se poi la Roma o il Milan o l’Inter devono andare a giocare sul campo di Pescara per affrontare fuori casa il Crotone?(chiaramente con il massimo rispetto per tali società meno blasonate ma che con tanti sacrifici riescono a raggiungere la massima serie.) Qualcosa non torna: si può ipotizzare che il calcio, di per sé azienda in fallimento o quasi, veicola altri interessi (ovviamente, legittimi e conformi alla legge), che giustificano un esborso di danaro, che altrimenti – di per sé – non sarebbe ragionevole.
È evidente che a Milano siano arrivati i capitali cinesi, visto che è la città, per antonomasia, dove il commercio è nelle mani di un tessuto di micro-aziende di origini orientali, così come è ovvio che gli Americani siano sbarcati a Roma, dato che, nell’arco di tre anni, dovranno dismettere l’Olimpico, di proprietà del Coni, e realizzare uno stadio di proprietà, come quello della Juve o quelli della Premier League inglese.

Per tal via, se non si è internazionalizzato il torneo, almeno sono diventati con gli occhi a mandorla i veri detentori dei capitali, che oggi consentono a grandi società di essere, ancora, iscritte ad un torneo che – nonostante tutto – attira l’interesse di una platea potenziale di sessanta milioni di Italiani.
D’altronde, se non si realizzeranno a breve i nuovi catini per i tifosi, si potrà sempre giocare un turno della serie A a Pechino ovvero la finale della Coppa Italia ad Hong Kong.
Ma, dov’è finito il tifoso, che con la radiolina, negli anni ’80, ascoltava le radiocronache di Sandro Ciotti, Enrico Ameri e dei loro colleghi e che, al massimo, poteva aspettare la sintesi di una partita alle 19 sul primo canale della Rai?
Quel tifoso, o meglio il figlio o il nipote, è finito comodamente in divano a vedere la partita, in diretta, sul satellitare digitale o sul terrestre, forse non consapevole del tutto che, in attesa degli stadi nuovi, egli rappresenta la principale fonte di finanziamento di un sistema, che continua a perdere molto più danaro di quanto ne produca. Come si dice in questi casi, contento lui…

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