Sandro Pertini – Nei giorni, nei quali si commemora il quindicesimo anniversario della morte di Bettino Craxi, mi piacerebbe rendere omaggio a Sandro Pertini, il cui carisma in vita è stato così forte, che – tuttora – gli Italiani, indipendentemente dalla generazione di appartenenza e dal credo, guardano a lui come il prototipo di politico, che purtroppo non c’è più.
L’onestà, sia morale che intellettuale, del Presidente della Repubblica fu così forte, che egli, a distanza di trent’anni dalla conclusione del suo mandato presidenziale, viene ricordato ancora come l’amico Sandro, come colui che, pur albergando nelle istituzioni più importanti dello Stato, non ha mai creato un solco incolmabile fra sé ed i cittadini, di fatto divenendo il primo Presidente che ha aperto il Quirinale agli Italiani, fossero adulti o bambini.
Ha appartenuto ad una generazione, che ha sofferto il Fascismo: la sua formazione fra i partigiani lo ha condizionato per l’intera esistenza, ma invero, come tutti i Socialisti autonomisti, ha anche patito la prepotenza dei Comunisti, che, ai suoi occhi, erano portatori di una visione distorta del Bene comune, benché lo facessero in buona fede ed avessero origini nobili, come l’intera Sinistra socialista, dalla cui costola sono nati.
Infatti, gli unici due leaders comunisti, che ha sempre amato, sono stati Gramsci e Berlinguer, dei quali dovette piangere, in vita, la scomparsa fin troppo prematura: il primo, purtroppo, ucciso dalle violenze fasciste, mentre il secondo scomparso, mentre era impegnato nella chiusura della campagna elettorale per le Europee del 1984.
Egli venne eletto, nel 1978, alla Presidenza della Repubblica, perché la stagione del terrorismo aveva indebolito notevolmente la DC, la quale non poteva più allungare le sue mani, anche, sul Quirinale, in un momento storico in cui la sua funzione politica veniva contestata sia per le corrette vie democratiche, che per quelle – purtroppo – cruente dell’estremismo di Destra, come di Sinistra.
Fra i vari papabili, in quota PSI, egli venne scelto, perché considerato – a torto – come quello dal profilo più basso, dato che gli veniva riconosciuta la ben nota grande onestà, ma non gli venivano attribuiti straordinari meriti sul piano della leadership politica, dal momento che, nel Secondo Dopoguerra, il leader per definizione era considerato Pietro Nenni, mentre tutti gli altri – da Lombardi a De Martino, da Mancini al giovane Craxi – erano visti, almeno, un gradino sotto al padre del socialismo riformista italiano.
Invece, una volta eletto, Pertini dimostrò di avere le qualità necessarie non solo per essere il Capo di Stato, amato dagli Italiani, ma anche per divenire il leader, che era mancato al Paese, dopo la conclusione dei Governi di Centro-Sinistra ed il contemporaneo fallimento della stagione del Compromesso Storico, che avveniva – quasi – contestualmente con l’elezione dello stesso Pertini al seggio quirinalizio.
Dopo il 23 novembre del 1980, egli intervenne nella vicenda del terremoto irpino, denunciando i ritardi e gli abusi, che venivano commessi in Campania, in virtù dell’alibi dettato dall’evidente condizione emergenziale.
Certo, nessuno dei suoi predecessori, trovandosi nella medesima situazione, avrebbe usato i toni di Pertini per compulsare l’azione della Protezione Civile e quella degli Enti Locali, che accusarono dei ritardi spaventosi nelle operazioni di soccorso delle popolazioni civili colpite dal terribile sisma.
Campani – inoltre – erano, anche, i suoi due principali e preziosi collaboratori al Quirinale: Antonio Maccanico, erede di una nobilissima tradizione irpina e legato, da sempre, agli ambienti della cultura laica, massonica e risorgimentale avellinese, ed Antonio Ghirelli, napoletano e socialista non massimalista come Pertini, Napolitano e molte altre personalità che, negli anni Trenta, erano cresciute nel culto del socialismo riformatore, antifascista, libertario e liberale.
Con i suoi collaboratori il rapporto fu sempre di intensità straordinaria: d’altronde, egli non esitò a licenziare Ghirelli dal ruolo di Capo Ufficio Stampa della Presidenza della Repubblica, quando, nel corso di un viaggio all’estero, egli colpevolmente fece trapelare una notizia, riguardante il Governo Cossiga, allora in carica, che avrebbe dovuto rimanere segreta fino a quando Pertini non fosse tornato in Italia.
Quanto al suo rapporto con Maccanico, non si può non ipotizzare che fu altrettanto originale e vivace, visto che il Presidente, per quanto novizio del Quirinale, all’atto dell’elezione, contrariamente al suo Segretario Generale, certo aveva la personalità giusta per non essere eterodiretto da chi, pure, poteva contare, in suo favore, di una maggiore familiarità con il protocollo presidenziale e con gli effettivi centri di potere dello Stato italiano.
Infine, originalissimo fu il rapporto con Bettino Craxi, dapprima Segretario del suo partito, quando egli venne eletto nel 1978 al Quirinale, e poi primo Presidente del Consiglio socialista nel 1983, da lui stesso nominato.
Pertini contestò alcuni passaggi della Segreteria Craxi nel biennio 1976-1978, prima dell’elezione quirinalizia, ma poi, con grandissimo stile, egli non prese la tessera del PSI, quando – divenuto Capo di Stato – doveva rappresentare non più una forza, ma l’intero arco costituzionale dei partiti, che lo avevano voluto a capo delle istituzioni repubblicane, nel momento più delicato della storia della Prima Repubblica, quando il terrorismo insanguinò le piazze e, direttamente, colpì la politica con il sequestro, prima, e l’omicidio, poi, di Aldo Moro, allora Presidente della Democrazia Cristiana, destinato ad essere il successore di Pertini, nel 1985, se dal covo brigatista fosse uscito vivo.
Sulla questione Moro, ci fu lo scontro più forte e stridente con Craxi: da una parte, il Premier era a favore della trattativa con le BR, in quanto sapeva bene che il mandante di quell’atto vile si trovava fuori dall’Italia e, dunque, andava stanato attraverso una fase di dialogo serio e costruttivo; invece, Pertini fu un assertore della linea della fermezza, per cui, dall’alto della sua moralità – sia pubblica, che privata – molto pronunciata, egli riteneva che con folli assassini non fosse né possibile, né lecito impostare alcuna trattativa, che potesse essere utile per il riconoscimento del loro ruolo e della loro battaglia, fortemente intrisa di ottusa ed insana ideologia.
Forse, a distanza di oltre trent’anni da quegli eventi, possiamo affermare che, almeno su quel punto, avesse ragione Craxi e non Pertini, visto che l’omicidio Moro non solo ha determinato la fine anticipata della Prima Repubblica, ma ha creato un caos istituzionale, di cui, tuttora, avvertiamo gli effetti assai nefasti, dato che l’uccisione dello statista democristiano segnò il punto più basso della popolarità della classe dirigente dell’epoca, che aveva lasciato marcire Moro nella prigione brigatista.
Il rapporto, infatti, fra il Paese reale ed i vari Andreotti, Cossiga, Fanfani, Zaccagnini, da quel momento in poi, non fu più come prima, perché gli Italiani, anche se non ne avevano le prove, che forse mai emergeranno del tutto, avevano ben capito che il sacrificio del Presidente della Democrazia Cristiana serviva per consumare un bagno catartico, utile però a chi rimaneva in vita e non, certamente, a chi era costretto a perdere la vita in un modo tragico, sia per sé, sia per i suoi familiari.
Fra una settimana, circa, sarà eletto il successore di Napolitano: milioni sono gli Italiani che sperano di poter vedere al Quirinale un nuovo Pertini, assertore di un modello di moralità tanto trasparente, quanto amato dalla pubblica opinione, visto che – dopo la sua scomparsa – la qualità, intellettuale ed etica, della classe politica italiana è andata scemando, raggiungendo forse – oggi – il suo limite più basso, visto che neanche Tangentopoli è servita ad eliminare quei vizi, che minano profondamente la relazione fra il ceto politico ed i cittadini, i quali sono sempre più sfiduciati e lontani dalle istituzioni, che giudicano con diffidenza e non con l’amore, che – invece – dovrebbe esistere, in una moderna ed avanzata democrazia liberale, fra i gruppi dirigenti e le classi dirette, fra l’élite ed il popolo.
Rosario Pesce