Matteo Renzi parla L’Europa non lo Ascolta.

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Europa – L’immagine del Parlamento europeo, privo di deputati, nel momento in cui Renzi raccontava le azioni messe in essere durante il semestre di Presidenza dell’Unione Europea, mette bene in evidenza i limiti della democrazia, ma anche quelli del protagonista, che – in quegli istanti – avrebbe dovuto essere ascoltato da tutti i rappresentanti eletti dal popolo europeo, nello scorso mese di maggio.
Generalmente, le aule delle Assemblee elettive sono, spesso, prive dei loro componenti, quando a parlare non sono i leaders di maggiore spessore: pertanto, un’assenza di massa, da parte dei parlamentari europei, è una notizia pessima sia per Renzi, che per il nostro Paese, il cui peso specifico nel contesto continentale è ridotto, ormai, a livelli infimi.

Infatti, il discorso, pronunciato in occasione della conclusione del periodo di conduzione delle più importanti istituzioni europee, avrebbe dovuto ambire a ben altro scenario, ma è evidente che la cornice, venutasi a creare, costituisce di per sé il giudizio più efficace in merito sia ai risultati ottenuti dalla Presidenza Renzi, sia all’importanza, che viene riconosciuta – a torto o a ragione – allo stesso Premier italiano, trattato alla stregua di un leader di serie B.
Non a caso, durante la cerimonia parigina della scorsa domenica, il Presidente del Consiglio italiano non era in primissima fila, accanto al Presidente francese, nonostante in quel momento egli fosse, ancora, al vertice delle gerarchie europee, a dimostrazione ulteriore che, negli organismi continentali, non contano le funzioni formali ricoperte, ma il peso dei singoli Stati nazionali, nonostante si sia ultimato, da tempo, il processo di unificazione monetaria dei Paesi del vecchio continente.

Una domanda, però, sorge spontanea: se, al posto di Renzi, si fosse trovato D’Alema o Prodi o Monti o Amato – per citare quattro autorevoli candidati al soglio quirinalizio – la reazione dei deputati europei sarebbe stata la medesima?
O l’autorevolezza delle personalità citate avrebbe indotto, finanche, il parlamentare finnico o quello lettone ad essere presente, per ascoltarne il discorso di fine Presidenza?
Penso che la risposta possa essere chiara: in pochi, forse, avrebbero perso l’intervento di protagonisti della vita politica e delle istituzioni degli ultimi trent’anni, per cui – pur di rottamare un’intera classe dirigente – alla fine si diventa assai poco credibili all’estero, sebbene in Italia si acquisiscano consensi a go-go.
È inevitabile che il curriculum di una persona ne sia, anche, il suo biglietto da visita, per cui chi – bene o male – ha, comunque, rappresentato gli interessi nazionali al tavolo dei potenti del mondo, non può non essere riconosciuto a dispetto di chi, invece, ha finora fatto solo promesse – che è difficile mantenere – viste le condizioni internazionali ed interne, che non danno la possibilità all’Italia di avere il potere contrattuale, che ha la Germania o la Francia o il Regno Unito.

Sono, questi, tempi di decadenza?
Certo è che il ringiovanimento coatto del ceto politico indebolisce viepiù il nostro Paese, che – all’estero – viene identificato tuttora con Giorgio Napolitano, dal momento che tutti – Europei ed Americani – hanno, sempre, individuato nel Presidente della Repubblica uscente il rappresentante – per definizione – in cui si incarna simbolicamente lo Stato italiano, sia per l’indiscusso prestigio internazionale, sia per le competenze spese, per una vita intera, al servizio della sua nazione e della causa europea, nel corso – soprattutto – degli ultimi trent’anni.
Da domani mattina, quando saranno ufficializzate le dimissioni di Napolitano, chi sarà dunque il vero interlocutore dell’Italia con gli alleati occidentali?
Non possiamo non augurarci che il successore dell’odierno Capo di Stato abbia, almeno, un rilievo mondiale non inferiore a quello del suo predecessore, se crediamo che il Paese possa – ancora – vantare un credito morale e politico, che molti ci negano.

Rosario Pesce

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