Ieri, non è stato un sabato qualsiasi per il calcio italiano, visto che non solo la Juventus ha vinto il quarto titolo sportivo consecutivo, ma soprattutto perché Berlusconi ha proceduto, di fatto, a vendere una quota molto importante della società milanista ad un investitore straniero, un thailandese, che rappresenta gli interessi di un fondo azionario, già presente da tempo nel mondo dello sport.
La notizia dell’alienazione della squadra più blasonata d’Italia, qual è appunto quella rossonera, non può passare inosservata, visto che, peraltro, a vendere è il più noto capitalista italiano, che, nel corso dell’ultimo ventennio, ha fatto del calcio non solamente uno strumento di soddisfazione della sua passione sportiva, ma in particolare lo ha reso un mezzo, in verità, essenziale di acquisizione del consenso a fini, meramente, elettoralistici.
La vendita del 50% circa del capitale azionario del Milan, quindi, apre una nuova stagione del calcio italiano, in parte già anticipata dalle cessioni della Roma e dell’Inter ad altrettanti investitori stranieri, che sono entrati nello sport a seguito dei (quasi) fallimenti societari delle precedenti proprietà sportive, che, dopo una serie di importanti successi calcistici, hanno dovuto alienare le rispettive società per gli elevati costi finanziari della gestione, intollerabili per il modello produttivo italiano.
Abbiamo, già, altre volte parlato della necessità della riforma del calcio del nostro Paese, visto che il sistema economico, su cui si regge, è ormai obsoleto ed inadeguato ad affrontare le nuove sfide del XXI secolo. D’altronde, la debolezza cronica delle nostre squadre, quando giocano all’estero, dimostra bene come lo sport più amato dagli Italiani non sia in grado – al momento – di regalarci le medesime soddisfazioni, che pure abbiamo conseguito in passato, quando, nei momenti migliori delle gestioni di Berlusconi, Agnelli e Moratti, i sodalizi più rilevanti erano in grado di farsi rispettare negli stadi più prestigiosi d’Europa.
Ora, siamo ad un punto di svolta: delle grandissime squadre del calcio italiano, l’unica, che ancora rimane di proprietà di una famiglia non straniera, è la Juventus; tutte le altre, ormai, hanno proprietari stranieri, che, in alcuni casi, non sono neanche noti, visto che – come nel caso del Milan – l’investitore che chiuderà i contratti di cessione nelle prossime settimane, Mister Bee, è solamente un broker, dietro al quale si nascondono i riferimenti di un Fondo internazionale, che sono ignoti alla stampa e che, forse, rimarranno nell’anonimato, finanche, dopo la cessione definitiva del sodalizio milanese.
Quindi, il calcio italiano, con la notizia della cessione – in gran parte – formalizzata ieri, si appresta a divenire compiutamente internazionale, dal momento che, ineluttabilmente, i centri decisionali si sposteranno altrove ed i dirigenti italiani, che rimarranno in carica, come ad esempio lo stesso Galliani, saranno solamente i riferimenti nella nostra penisola di un capitalismo, che nasce e si radica in luoghi lontanissimi dalle nostre sponde.
Qualche settimana fa, dopo la vendita della Pirelli, Romano Prodi ebbe a dichiarare che la politica industriale del nostro Paese non si fa più a Milano o a Roma, ma viene condotta a Pechino, dato che i principali asset economici sono nelle mani di capitalisti orientali.
La frase dell’ex-Presidente del Consiglio è, quanto mai, fondata: l’economia italiana, ormai, ha i suoi più autentici centri di potere fuori dall’Italia, per cui, nei prossimi decenni, ci sarà – nel calcio, come in altri settori della produzione – un’economia di serie A ed una di serie B: la prima sarà quella dei grandi magnati stranieri, come appunto si auspica nel caso della nuova proprietà del Milan, mentre la seconda sarà quella dei capitalisti italiani, che penseranno ancora di poter condurre un capitalismo di tipo familiare, radicato in Italia ed, inevitabilmente, molto più debole di quello che avrà basi solidissime a Pechino o a Shangai o a Hong Kong.
Si dirà che, questi, sono gli effetti dell’internazionalizzazione dei mercati: la risposta non può che essere giusta, ma tragicamente inquadra solo un aspetto della problematica. Infatti, fare dell’Occidente – o, quanto meno, dell’Italia – una colonia cinese significa, di fatto, aprire il Paese ad una prospettiva, non solo economica, molto diversa da quella che siamo abituati a concepire: infatti, i Mister Bee di turno, che saranno sempre più numerosi d’ora in poi, condizioneranno con la loro mentalità la società italiana molto più di quanto non abbiano fatto, in passato, Berlusconi o Agnelli o Moratti, per cui la cinesizzazione dello spirito italico, nell’arco di una generazione, sarà una realtà definitiva, a cui non potremo affatto opporci.
Sarà, questo, un esito felice della nostra storia culturale, produttiva e civile? Certo è che l’Italia cambierà, per effetto di questi mutamenti epocali, in modo rapido e profondo ad un tempo, per cui dovremo immaginare un Italiano medio, forse, ancora mediterraneo nei caratteri somatici, ma invero sempre più con gli occhi a mandorla nella mentalità ed, in particolare, nei comportamenti. Sarà, forse, il segno distintivo dell’Italia del XXI secolo?