Selma, cinquant’anni dopo

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Si è celebrato, ieri, l’anniversario della marcia di Selma, una piccola città del Sud degli Stati Uniti d’America, nella quale, nel 1965, i neri d’Alabama marciarono, appunto, per il riconoscimento dei diritti civili, fra cui quello al voto, che veniva loro negato dall’America profondamente razzista, che, negli anni ’60 del secolo scorso, cercava con ogni strumento di negare la crescita della comunità nera. Sono passati cinque decenni da quella data e gli Stati Uniti hanno, certamente, compiuto molti passi in avanti sulla strada del riconoscimento delle prerogative di cittadinanza a tutti, indistintamente dal colore della pelle. 

Non è un caso se, oggi, il Capo di Stato statunitense sia un nero e buona parte della borghesia americana sia composta di persone di colore, che hanno ruoli di responsabilità sia in economia, che in politica, oltre allo stesso Obama. Il problema della parità dei diritti, però, non è mai giunto ad un’effettiva conclusione, visto che episodi, che manifestano un’evidente intolleranza razziale, si registrano quotidianamente negli USA, per cui non mancano le notizie di poliziotti che sparano su cittadini di colore, pur essendo disarmati e non avendo compiuto alcun gesto, che possa far pensare ad una loro volontà omicida. 

Ma, il processo di integrazione, se negli Stati Uniti presenta delle articolazioni tuttora problematiche, in Europa è invece in fortissimo ritardo, per cui gli elementi di preoccupazione, relativi al vecchio continente, sono ben maggiori rispetto alla complessa realtà nord-americana. Il nostro Paese, in particolar modo, ancora oggi non ha costruito quelle politiche sociali ed educative necessarie e sufficienti per affrontare l’emergenza dell’interculturalismo: soprattutto al Nord, la Lega di Salvini, infatti, sistematicamente fa dello straniero, appena giunto in Italia e di colore diverso dal nostro, il nemico di turno, che va eliminato o, comunque, segregato rispetto al contesto civile, in cui si muovono tutti gli altri Italiani. 

Nei prossimi decenni, se i flussi migratori dal Nord-Africa continueranno con la medesima frequenza degli ultimi tre anni, la nostra società sarà composta in buona parte di cittadini di colore, ai quali sarà giusto riconoscere i legittimi diritti di cittadinanza, di cui possono godere gli Italiani. Naturalmente, una grandiosa operazione di tal natura non può che implicare costi finanziari e sociali, invero, ingenti. 

Infatti, le politiche dell’accoglienza e dell’integrazione costeranno non poco all’Erario, ma, nonostante ciò, bisognerà vincere la scommessa dell’intercultura, visto che i nostri coetanei, che si ribelleranno sempre più all’accoglienza del diverso, tenderanno purtroppo a crescere a dismisura, dato che la propaganda della Destra xenofoba avrà facile gioco nel sollecitare un clima vero e proprio di guerra fra poveri, facendo intendere che le politiche per l’integrazione sottraggono ricchezze agli Italiani più deboli e più poveri. 

In Italia, però, contrariamente agli Usa, abbiamo una Chiesa cattolica molto forte, che dovrebbe giocare un ruolo importante nella mediazione fra bianchi e neri, evitando lo scontro razziale, che molti soggetti partitici, incautamente, stanno fomentando, per cui crediamo che, mai, in Italia possa nascere un’organizzazione analoga al Ku Klux Klan, che faccia dell’odio contro il nero la ragione sociale della sua esistenza. Nonostante i nostri auspici, che sono dettati però più dalla speranza che dalla ragione, è evidente che le istituzioni devono mobilitarsi massicciamente, per evitare che l’Italia del 2050 possa divenire un campo di battaglia, come lo furono tragicamente gli Usa degli anni Sessanta del secolo scorso. 

D’altronde, sappiamo bene come il protrarsi della crisi economica non può non rappresentare un ulteriore fattore di accelerazione dello scontro fisico fra le comunità di bianchi e neri, di cattolici ed islamici, visto che molti dei nuovi Italiani professano la religione di Maometto. Pertanto, la società civile, la politica, i corpi intermedi, i sindacati si adoperino, perché si possa arrivare ad una condizione di pacifica convivenza nell’Europa del XXI secolo, onde evitare che, finanche da noi, si possano riprodurre episodi, come quello di Selma, ieri commemorato, che sul suolo europeo potrebbero portare ad un livello di conflittualità ancora più inquietante di quello dell’America kennedyana del secolo scorso.

 

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