Proviamo a disegnare un possibile scenario dopo il 4 dicembre, in caso di successo del NO. Renzi sarebbe costretto a dimettersi, perché la valenza del voto contrario alle sue riforme sarebbe così forte, che egli – certo – non potrebbe resistere, neanche, un altro minuto alla guida dell’Esecutivo. Ipotizzando che il Capo dello Stato non ha alcuna intenzione di sciogliere le Camere, perché c’è da riformare in primis la legge elettorale, è chiaro che si va verso un Governo di Larghe Intese, sostenuto contemporaneamente dal PD, Forza Italia e da tutte le componenti minori, che non hanno interesse a consegnare il Paese ai Grillini.
D’altronde, di Governi di Larghe Intese ne abbiamo avuto, finora, almeno tre, visto che gli Esecutivi Monti, Letta e Renzi sono tutti nati grazie ad accordi che hanno messo insieme il Centrodestra con il Centrosinistra. Orbene, il primo quesito nasce spontaneo: chi lo guiderebbe? Non lo può guidare un rappresentante dell’attuale minoranza del PD, perché, in attesa che si celebri il nuovo Congresso, è ineluttabile che i numeri delle varie componenti interne siano rimasti, ancora, inalterati.
Pertanto, il nuovo Premier deve essere scelto fra coloro che, pur non essendo nati renziani, hanno sostenuto Renzi nel corso degli ultimi tre anni.
In tale ottica, la personalità più indiziata sarebbe Franceschini, che ha, certo, le competenze ed i numeri per fare il Presidente del Consiglio. È stato il Vice di Veltroni e di Bersani, ha sostenuto – finora in modo fedele – l’esperienza renziana, anche se con moltissima scaltrezza, tipicamente democristiana, si è guardato bene dall’andare in tv a sorreggere le tesi del Sì.
Il suo sostegno è stato, almeno fino ad ora, molto tiepido, per cui ha mobilitato la sua componente in favore del Sì, ma lui stesso ha misurato i suoi passaggi televisivi, evitando opportunamente di essere confuso con uno dei renziani della prima ora.
Quindi, non è né la Boschi, né la Serracchiani, destinate a cadere in disgrazia, se Renzi dovesse perdere lo scranno di Palazzo Chigi.
Ovviamente, la minoranza interna, da Bersani a D’Alema, non possono che sostenere quest’esperienza di transizione, sapendo bene che, poi, le carte si rimescoleranno in occasione del Congresso, quando un eventuale accordo fra ex-democristiani ed ex-comunisti può riportare questi ultimi a recitare un ruolo da protagonisti sia nel partito, che nel Governo.
Forse, la nostra è solo fantapolitica o, come diceva Andreotti, pur facendo peccato, abbiamo visto bene?