Referendum: Basta un No, per tutelare la sovranità popolare

Il dibattito di questi giorni fa emergere tutta una serie di motivi per cui ci si schiera al referendum costituzionale. Votano SI perché hanno paura della crisi economica, perché la Boschi è bella, perché non hanno capito nulla del prof. Zagrebelsky, perché lo ha detto Obama. Votano NO per antipatia a Renzi, perché hanno paura di svolte dittatoriali, perché non gliene importa nulla e così via. Io credo che il voto debba essere consapevole, sui contenuti della riforma costituzionale. Che debbono essere valutati a livello giuridico. Perché la Costituzione è una cosa seria.

Costituzione di tutti o di parte? Già solo il fatto che si parli di riforma “Renzi-Boschi”, ci fa capire l’errore di fondo. La Costituzione è la legge fondamentale di tutti. Nel 1946 si unirono partigiani, comunisti, democristiani, liberali e anche qualche monarchico per scrivere insieme le regole di tutti.

Una Costituzione “presbite”, diceva Calamandrei. E, giustamente, la nostra Costituzione è riuscita a guardare lontano e a reggere il sistema, passando dalla guerra fredda, agli anni di piombo, agli scandali di mani pulite, all’euro, alla crisi economica.

Una Costituzione che è riuscita a conservare i valori della democrazia e della libertà.

Ora è sbagliato logicamente  e culturalmente che sia il Governo del momento a fare la sua Costituzione. Senza la partecipazione di minoranze e di opposizioni (alla approvazione finale del 12 aprile hanno votato soltanto 368 deputati su 630, con 361 voti favorevoli).

Se passerà la Costituzione “Renzi-Boschi”, il prossimo governo vorrà la “sua” di Costituzione. E così via. Ma in questo modo la Costituzione non è più il patto sociale di tutti: è un qualsiasi atto politico di parte.

Il linguaggio della Costituzione.

La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.

Il nuovo art. 70 ci dimostra che questa riforma è stata scritta in “giuridichese”, come una qualsiasi legge, dimenticando che le Costituzioni parlano direttamente al popolo. Non soltanto agli addetti ai lavori.

I Costituenti del 1947 fecero lo sforzo di non usare mai frasi che superassero le 20 parole, utilizzando per oltre il 90% del testo parole di uso comune. Non a caso la Costituzione venne affissa per l’intero 1948 in tutti i Comuni. Per essere letta e capita da un popolo di gente semplice.

Scrivendo in giuridichese, la Costituzione non è più comprensibile a tutti.

Le contraddizioni

La riforma su cui voteremo è molto ampia. Modifica 54 articoli su 139. Tocca almeno 20 punti diversi, dal Senato al CNEL; dalle Province al referendum, dal procedimento legislativo alla elezione del Presidente della Repubblica.

Ma si è lavorato solo sui particolari, senza valutare il quadro d’insieme.

E se andiamo a vedere quale modello costituzionale ne viene fuori, ci accorgiamo delle contraddizioni.

Così, da una parte, il Senato si trasforma per diventare la Camera delle autonomie territoriali. Ma, dall’altra, contemporaneamente, il ruolo delle autonomie viene di molto ridotto: si aboliscono le province e si restringono le competenze regionali. Ma allora che modello si vuole: centralista o autonomista?

Ma ancora: si aboliscono le Province, ma si continua a parlare di “enti di area vasta” (Che sono la stessa cosa…); non si cambia la disciplina del Governo, ma se ne rafforzano in vari modi i poteri.

Il Senato “rabberciato”  

La riforma più importante è quella del Senato, per passare dal bicameralismo perfetto a un quasi bicameralismo.

Solo la Camera dei deputati dà la fiducia al governo e ha competenza legislativa generale. Il Senato rappresenta i territori, partecipa alle decisioni europee, valuta le politiche pubbliche, effettua nomine, ha importanti funzioni legislative.

Comunque un Senato che svolge molti compiti e che metterà in affanno i senatori part-time.

Perché 95 senatori saranno eletti dai Consigli regionali, fra sindaci e consiglieri: saranno senatori con il doppio lavoro.

E così nasce un dubbio. In Senato andranno i sindaci di Milano e di Roma o i governatori di Campania e Veneto? Certo che no! Ci andranno sindaci di piccoli comuni e consiglieri secondari, che hanno impegni meno importanti a livello locale.

Ma allora avremo un Senato – come detto efficacemente – di “improvvisati”.

Un grande problema! Perché comunque il Senato ha funzioni molto significative. Ma con senatori inesperti, che tuttavia potranno svolgere un enorme potere di interdizione (senza avere più la questione di fiducia e con il potere di sollevare conflitti alla Corte costituzionale).

Non è certo un modello più semplice e più snello. Ma un modello dove il Senato, che avrà maggioranze non corrispondenti al governo, diventerà la Camera del “ricatto”.

Purtroppo sarà anche un Senato poco rappresentativo. 9 regioni e le Province autonome avranno solto 2 senatori. Mentre Lombardia, Lazio, Campania da sole avranno 1/3 dei senatori. La sotto-rappresentanza è gravissima per le Regioni medie. Liguria, Marche o Abruzzo avranno lo stesso numero di senatori del Molise. Mentre oggi ne hanno oltre il triplo!

Ma, poi, si eliminano le province (ma si lasciano gli “enti di area vasta”, che sono la stessa cosa!), senza considerare che forse oggi andrebbe ripensato l’impianto delle Regioni. Non si risolvono i conflitti di competenza fra Stato e Regioni, ma ci si limita ad aumentare le competenze statali. Si indeboliscono le garanzie, abbassando la maggioranza di elezione del Presidente della Repubblica e aumentando la percentuale di senatori nominati dal Presidente stesso (5 su 100 e non più su 315).

Insomma, una riforma confusa, frettolosa e contraddittoria. Che ci porterebbe ad una Costituzione meno funzionale e garantita di quella attuale. Perciò voto NO.

A cura di Avv. Alfonso Celotto

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