Il principale capo d’accusa che negli ultimi tempi è stato alzato contro l’Università italiana, a ragione, è quello di praticare il cosiddetto “nepotismo” da parte di alcuni suoi docenti, e tale e tanto è stato il moto di ribrezzo verso di esso che per sconfiggerlo, in varie ondate, si è addirittura varata una serie di riforme, i cui effetti sono ad oggi evidenti. Ma al netto di quello che potremmo definire come un fenomeno tutto italico, credo sia doveroso svolgere alcune considerazioni che paiono necessarie, almeno se si vuole affrontare la questione al di fuori degli striscioni, delle prosopopee giornalistiche e dei titoli scandalistici di taluni leoni da tastiera.
Innanzi bisogna essere ponderati nel calcolo approssimativo sia dell’ampliamento sia del radicamento del fatto; in primo luogo per evitare abbondantemente di incappare nello stesso inconveniente riportato da Cicerone nelle parole di Diagora l’Ateo, un racconto noto ad alcuni come paradosso di Poseidone, che evidenzia un fatto di grande interesse ovvero di fidarsi, con giusta considerazione, dei fenomeni singolari, delle narrazioni delle malfatte, di quegli eventi capaci di sollecitare l’indignazione morale ad ondate. Talvolta è la specialità del caso negativo ad annacquare i mille casi positivi, ma è anche vero che l’incidenza percentuale dei casi di nepotismo su quelli in cui esso non ha luogo, sono di una natura tale da creare una sorta di ribrezzo ideale corretto ma mal gestito.
Ed ovviamente quando parlo di nepotismo, lo intendo nel senso tecnico del termine, e ritengo che debba essere inquadrato in un contesto più ampio, fisiologicamente foriero di interventi di aggiustamento, necessari per evitare che esso diventi semplicemente un casus belli per la destrutturazione e la delegittimazione dell’Università e per giustificare politiche quali quelle messe in atto da un decennio a questa parte in materia di carneficina dell’istituzione.
Io partirei dal valutare, poiché in questo caso mancano delle ricerche effettivamente attendibili, se il livello di nepotismo esistente nell’Università sia maggiore o minore di quello, altrettanto parossistico, che possiamo riscontrare in ogni altra istituzione pubblica e talvolta anche privata. La risposta sarebbe straordinariamente comprensibile: in qualunque Comune, Provincia o Ente partecipato, il nepotismo è radicato e diffuso quanto nel mondo accademico, al netto di eventi straordinariamente plateali, ed è favorito dallo svilimento dell’istituto del sistema pubblico dei concorsi, sostituito (specialmente nelle entità partecipate) dalla cosiddetta chiamata diretta mediante contratti allucinanti dalla forma precaria, che poi confluiscono in contratti stabilizzati e resi a tempo indeterminato con metodiche a dir poco illegali.
A tali formulazioni si deve aggiungere il risvolto negativo della mortificazione del singolo meritevole, che al netto di una sfortunata impossibilità a conoscere il potente di turno, vede la sua competenza e professionalità mortificata in call center o lavori da fame. Restando nel mondo accademico, non si può non sottolineare che ci si trova di fronte ad un’isola felice, sottolineo che sto metaforicamente parlando, in quanto esso si dota in gran parte di personale docente, soprattutto per le aree di studio con minore appeal finanziario, ancora assunto per merito. Certo è che da una istituzione come l’Università ci si attenderebbe un rendimento meritocratico più elevato di quello di una comune istituzione pubblica, ma per ottenere tale risultato occorrerebbero delle condizioni ben più indicative degli accorgimenti regolamentari.
E così arrivo all’ultima considerazione, che tocca le questioni di fondo non solo dell’Università, ma del sistema Italia in quanto tale. Inizio domandomi perché in altri paesi con i quali ci piace confrontarci, tale fenomeno sembra essere in misura minore rilevante rispetto all’Italia. Di certo, un docente universitario di un altro paese, si metterebbe a sgomitare per far entrare il proprio figlio all’Università, non considerando se questi ha altre aspirazioni? NO! Perché se il figlio vuol fare l’ingegnare o l’avvocato o il medico, è molto più facile fargli fare una buona Università e lasciargli esercitare la professione nel settore in cui guadagnerebbe molto di più e avrebbe di certo più soddisfazioni, soprattutto in un sistema economico e con una struttura sociale abbastanza vivaci e aperti per permettergli una facile collocazione al di fuori delle mura protettive dell’accademia, nella quale decidono di rimanere coloro che hanno più la passione per la ricerca e meno per i guadagni.
Da noi, invece, abbiamo una economia statica, con altissimi tassi di disoccupazione, una società immobilizzata e sempre più corporativa, un sistema politico che si è sempre più auto-referenziato e che ormai va tranquillamente verso l’eterna quiescenza ideale; con ascensori sociali che sono stati praticamente annientati, con un sistema sociale e un’economia che non innova e che mette ai margini competenze e incompetenze.
Il professore universitario, o meglio il cosiddetto barone, non è estraneo a questo clima sociale e di conseguenza ne riproduce, nell’ambiente in cui ha un affermato potere, i meccanismi; quindi il nepotismo non è che il frutto di una generale disfunzione della società, che bisogna combattere con forza. Quando si tratta di sopravvivenza negli interessi, le logiche spietate dell’evoluzione umana e sociale finiscono sempre per avere preponderanza e si può essere sicuri che si troveranno i modi per continuare a fare quel che si è fatto. Se vogliamo, dunque, parlare seriamente di nepotismo, e combatterlo per quel che è, non emuliamo, noi tutti, il buon Pilato attraverso velate denunce oppure esaltando le facili indignazioni morali, guardiamo piuttosto in faccia la realtà di questa società, soprattutto nelle sue bassezze; se prendiamo coscienza di ciò, ci si metterà sulla buona strada per compiere un primo passo col riconoscerlo con maggiore accuratezza e predisporre gli anticorpi per affondarlo e vincerlo.
Dott. Antonio Ansalone