Nel dicembre del 2013, Matteo Renzi vinse le primarie interne al PD per la Segreteria Nazionale, perché, in quel momento, si avvertiva in modo forte l’esigenza di un ricambio generazionale, che potesse mandare a casa la classe dirigente, ex-comunista ed ex-democristiana, che era stata responsabile del fallimento di quel partito negli ultimi anni.
La partita non si svolse affatto, perché la necessità della discontinuità prevalse su qualsiasi altro tipo di ragionamento, anche fra quanti – come noi – non condividevano a pieno l’impostazione culturale di quello che, di lì ad un paio di mesi, sarebbe divenuto il Presidente del Consiglio. Oggi, a distanza di un anno da quelle vicende, forse si può, molto più serenamente, fare un’analisi della situazione e verificare se la semplice sostituzione di un ceto dirigente di sessantenni con uno di quarantenni abbia o meno giovato, innnanzitutto, al Paese e, dunque, al PD.
È evidente che Renzi ha modificato, profondamente, la cultura politica del principale partito italiano, per cui il suo successo elettorale della primavera del 2014 è il frutto, innanzitutto, di un radicale capovolgimento di principi e valori, nei quali il popolo della Sinistra ha creduto per decenni.
Infatti, parole come “uguaglianza”, “ridistribuzione del reddito”, non sono più sulla bocca né del Segretario Nazionale del PD, né dei suoi più stretti collaboratori, prevalendo invece una confusa, quanto non meglio precisata idea meritocratica, che – a volte – si scontra con dati oggettivi della nostra società e dell’organizzazione del mondo del lavoro e delle professioni, che – invero – non sono confutabili, se non per opinabili esigenze di propaganda.
Nei giorni scorsi, usando un linguaggio fiorito, qualche opinionista ha dichiarato che il PD è divenuto, negli ultimi dodici mesi, un “o.g.m.”, volendo con questa espressione colorita rimarcare la distanza, che si è venuta a creare fra l’attuale conduzione politica e la tradizione di quel partito, che pure affonda nelle lotte operaie, socialiste e cattoliche, del XIX e del XX secolo.
Senza voler scendere su di un terreno di polemica più squisitamente giornalistica, appare indiscutibile la trasformazione del profilo ideale del partito renziano, che, oggi, è di fatto una forza moderata, che ama dialogare con i centri di potere economico e finanziario, sia per vocazione naturale dei suoi dirigenti, sia per obbligo imposto dall’Unione Europea, che è molto più sensibile ai bisogni dell’economia finanziaria, che non a quelli del mondo del lavoro subordinato, sia pubblico, che privato.
Una siffatta mutazione genetica ha fatto acquisire consensi nell’area moderata, per cui appare evidente a molti il notevole passaggio di moltissimi voti da Forza Italia al PD, in particolar modo derivanti dai ceti, tradizionalmente, conservatori del nostro Paese. Contemporaneamente, si è verificata un’emorragia di consensi da parte di quanti – lavoratori dipendenti, pensionati, studenti, persone in forte disagio economico – non si riconoscono in un indirizzo politico così rinnovato, per cui questi nostri concittadini, se nel corso del 2014 sovente non sono, neanche, andati a votare, nel 2015 potranno forse tornarlo a fare, visto che l’offerta partitica si è arricchita di nuove soggettività, che aspirano a dare la giusta rappresentanza a quegli interessi, che non vengono più interpretati da una forza – squisitamente – di Governo, che ormai è divenuta espressione di un blocco sociale di potere molto radicato, in particolar modo, a livello mediatico.
Gli esiti di una simile trasformazione non sono, ancora, prevedibili: è chiaro che, per molto tempo, il PD rimarrà il primo partito italiano per consensi e visibilità, ma sicuramente intorno a questa formazione cambierà assai sensibilmente la geografia politica, perché le ragioni del dissenso saranno, di volta in volta, rappresentate o da forze estremiste di Destra, xenofobe ed anti-europeiste, o da partiti (o cartelli elettorali) di estrema Sinistra, che ambiscono a fiancheggiare la lotta dei sindacati e, soprattutto, interloquiscono con quella fetta di società civile, che non si identifica più nelle personalità odierne del Partito Democratico e nel loro modus agendi.
La mutazione avvenuta, quindi, è di portata straordinaria ed avrà conseguenze sulla politica nazionale per i prossimi decenni, visto che – contrariamente al passato – oggi finanche il PD, scimmiottando il berlusconismo degli anni ’90, è alla ricerca di un modello istituzionale, che è poco o scarsamente affine ai principi della democrazia parlamentare, che ha sempre segnato la storia della nostra Repubblica, sin dal suo nascere, a seguito della lotta di liberazione anti-fascista.
La ricerca, infatti, dell’uomo forte, che riesce a risolvere problematiche ataviche, risponde ad uno stereotipo culturale, che purtroppo ha fatto proprio l’attuale classe dirigente del Partito Democratico, per cui non si può non notare che, nella nidiata di giovani quarantenni, saliti troppo rapidamente alla ribalta mediatica, prevalga esclusivamente il verbo dell’odierno Premier, venendosi a configurare una leadership carismatica, che i partiti di Sinistra non hanno mai vantato, neanche forse ai tempi di Togliatti e di Berlinguer, quando – in nome del centralismo democratico – il dibattito interno comunque esisteva, anche se veniva, sistematicamente, omesso in pubblico.
Attualmente, invece, è evidente che una dialettica autentica nel PD non ci sia, per cui, se un esponente della minoranza osa ipotizzare uno schema di pensiero o di azione diverso da quello del cerchio magico, esistente intorno a Renzi, viene immediatamente zittito, molto spesso con l’argomentazione dell’età anagrafica, che diventa sinonimo dei fallimenti del passato. È ovvio che, di questo passo, il futuro di quel partito non potrà non essere costellato di divisioni e di scissioni, perché, se continuerà a registrarsi un atteggiamento di simile tracotanza, finanche la minoranza più morbida verso il Segretario Nazionale ha l’obbligo morale – prima ancora che politico – di difendere la dignità propria e quella delle proprie idee.
In tal senso, il renzismo dominante, se per un verso ha creato un fenomeno attrattore, come pochissimi altri negli ultimi decenni, per un altro verso ha generato una dinamica di repulsione, per cui chi può vantare autonomia di pensiero e spirito critico, ineluttabilmente, tende – come si dice in gergo – a fare le valigie ed a transitare su ben altri lidi, molto più congeniali con l’elaborazione culturale di chi avverte la giusta e sacrosanta tensione nel difendere – ancora – le istanze legittime del mondo del lavoro, precario e subordinato, rispetto a quelle del capitalismo finanziario.
Chi avrà ragione alla fine?
I fenomeni politici nel nostro Paese – da Crispi a Giolitti, da Mussolini a Craxi ed Andreotti – sono tendenzialmente ventennali, per cui non prima di un periodo così lungo potremo capire quanto, effettivamente, il renzismo avrà inciso sulle coscienze degli Italiani, sperando che tali effetti non siano più devastanti di quelli del berlusconismo, che ha danneggiato profondamente il precario tessuto morale e civile di una nazione, che già storicamente – come ha insegnato Machiavelli – non ha mai avuto, purtroppo, modelli integerrimi di etica pubblica, ad onta della sua tradizione culturale, sia laica, sia religiosa.