Editoriale, 25 aprile Festa della liberazione dell’Italia: per non dimenticare

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Costruire una memoria condivisa all’indomani della guerra civile nel corso del biennio 1943/45.Le forze politiche e quelle della cultura si sono sempre divise, a partire da quella data, in fasciste ed antifasciste.

Per cui, durante tutta la Prima Repubblica, il legame con la dittatura è stato un necessario ed opportuno discrimine fra chi condivideva i valori libertari e democratici e chi, invece, è stato dalla parte sbagliata della barricata.

Dalla liberazione alla Prima Repubblica

Con la caduta della Prima Repubblica e con la salita al Governo degli eredi del Fascismo nel 1994 – gli esponenti del Movimento Sociale, poi divenuto Alleanza Nazionale – è chiaro che la storia è cambiata, per cui ci si è sforzato, da ambo le parti, di costruire una cornice condivisa di valori, così da realizzare la piena praticabilità istituzionale, anche, in favore di chi – per cinquant’anni – ha subito una conventio ad escludendum. Un simile tentativo è andato, in parte, fallito: infatti, ancora tuttora, sia pure sovente in modo vago e confuso, si ritorna all’antico discrimine, benché non siano più in vita coloro che, nel corso della Guerra di Liberazione, hanno preso parte con Fascisti e Nazisti.
Oggi, a distanza di settant’anni circa da quegli eventi, si ripropone il medesimo problema: i figli, o meglio i nipoti dei partigiani e dei repubblichini, possono festeggiare il 25 aprile come momento condiviso di una unica ed articolata memoria nazionale?

La risposta non può che essere parziale. In primis, infatti, bisogna ricordare a tutti, sia di una parte che dell’altra, che il tempo può rendere più mitigato il ricordo, ma le ragioni di una militanza conservano la loro integrità.
Non si può, invero, mettere insieme le ragioni della libertà e della democrazia con quelle di chi, all’epoca, ha combattuto a favore di una dittatura cieca ed irrazionale, che portò il Paese nel baratro di una guerra civile e di una povertà così diffusa, da cui l’Italia poté risollevarsi, solo, a distanza di venti anni – almeno – dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Certo, il Novecento ha poi dimostrato che, anche, i Comunisti, che erano la principale forza politica antifascista del nostro Paese, avevano nel loro arsenale ideologico gli scheletri della dittatura stalinista in Unione Sovietica, da cui hanno preso le distanze, forse, troppo tardi.

Pertanto, sembra opportuno, non dividere più il mondo fra fascisti ed antifascisti, che sono o appaiono categorie obsolete, ma fra democratici ed antidemocratici, visto che il fil rouge dell’autoritarismo può tornare in mille modi, finanche attraverso le mentite spoglie di un populismo fin troppo facile, per essere ritenuto credibile ed utile rimedio contro i mali del tempo presente.

Ma, siamo sicuri che il nostro Paese, attraverso la Resistenza, ha acquisito i giusti anticorpi contro ogni anelito autoritario?

Si sa bene che, nei momenti di difficoltà, la pubblica opinione rischia di essere molto meno attenta alla richiesta di democrazia e si lascia sedurre dalla cattiva pianta della demagogia e del populismo facile.

Oggi, pertanto, l’antica sfida dei partigiani si ripropone in altri termini e con altri mezzi: difendere, entro la cornice dello Stato di diritto, valore assoluto di riferimento, le ragioni della partecipazione democratica e delle libertà contro chi preferirebbe chiudere taluni spazi di democrazia, sfruttando le ovvie difficoltà del momento.
In tal senso, il 25 aprile deve unire tutte le forze, che credono in un principio di democrazia, che salvaguardi le ragioni dei più deboli, degli esclusi e dei diseredati, che altrimenti potrebbero essere strumentalizzate per abbattere ciò che si è costruito, a fatica, lungo tutto il corso del Novecento, dapprima nella sfida vinta contro il Fascismo ed il Nazismo e, poi, in quella – a livello planetario – contro il Comunismo.
Solo per tal via, gli Italiani potranno sentirsi più orgogliosi di loro stessi, ben sapendo che il sentimento nazionale deve essere condiviso, anche, con quello europeistico, visto che ciascuno di noi ha due terre di appartenenza: in primis, l’Europa e, dunque, l’Italia.

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