Antibiotici, la cura va interrotta quando i sintomi della malattia si riducono

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Che cosa è l’antibiotico? Si tratta di una sostanza prodotta da un microrganismo, capace di ucciderne altri, in grado di rallentare o fermare la proliferazione dei batteri. Gli antibiotici si distinguono pertanto in batteriostatici (cioè bloccano la riproduzione del batterio, impedendone la scissione) e battericidi (cioè uccidono direttamente il microrganismo).

La medicina è il centro della vita degli esseri viventi, nulla è paragonabile, resta la chiave dell’evoluzione in ogni sua forma, soprattutto quella umana. Grazie alla medicina e al suo continuo evolversi oggi la vita si è allungata, tante malattie, soprattutto le cosiddette “banali” sono state sconfitte, e fortunatamente non si muore a causa di un’infezione alla gola come accadeva nel 400!

Tuttavia, ogni tanto anche la medicina riesce a confondere i pazienti, contraddicendo se stessa, ad esempio quando si tratta di utilizzare specifiche metodologie di cura per alcuni farmaci. Nel caso specifico è nata una diatriba sull’utilizzo degli antibiotici. Da sempre ci è stato consigliato dal medico di continuare la terapia prescritta fino alla sua conclusione, oggi pare che, portare avanti la cura antibiotica anche dopo la scomparsa dei sintomi (quando si sta decisamente meglio) potrebbe provocare ulteriori problemi di salute di altra natura.

Tutto nasce da uno studio inglese, sviluppato dalla Brighton and Sussex Medical School, che a tutti gli effetti “sfaterebbe” il mito, o come in questo caso la giusta regola, del completare il ciclo di antibiotici prescritto dal medico. Secondo gli scienziati, continuando la cura anche quando si sta molto meglio, si rischia di creare l’effetto opposto, ovvero, l’organismo si abitua così bene, da riuscire nel corso del tempo a rafforzare la resistenza agli antibiotici stessi, con il rischio di una mancata efficacia nel futuro.

Un cambio radicale!
In realtà prima di questo studio si è sempre pensato che il completamento della cura antibiotica aiutasse notevolmente la non insorgenza della resistenza agli antibiotici, che ricordiamo resta una delle minacce più serie per la salute pubblica. Secondo gli autori dell’articolo, Martin Llewelyn , potrebbe però addirittura essere vero il contrario: “sarebbe più sano per il singolo e per la comunità interrompere la terapia prima del termine della prescrizione, non appena i sintomi dell’infezione sono scomparsi”.

Inoltre, sempre secondo lo studio, aumentano le evidenze scientifiche secondo cui sarebbero più sicuri cicli brevi di terapia (3 giorni) che non cicli lunghi come oggi spesso è prescritto (5-7 giorni o multipli di questi).

La raccomandazione del medico curante che sicuramente ognuno si sarà riportato a casa insieme a una ricetta per antibiotici è quella di finire la cura anche se a metà del ciclo si avverte un miglioramento. Il monito è che terapie interrotte possono causare l’insorgenza di resistenze. Eppure quando Llewelyn è andato alla ricerca delle motivazioni che storicamente hanno portato a radicare nella pratica clinica questa raccomandazione ha avuto difficoltà a trovarne. Poche evidenze scientifiche la corroborano, anzi studi recenti – ad esempio uno del 2010 e basato sull’analisi di migliaia di pazienti con infezioni del tratto urinario e respiratorio – sempre più spesso dimostrano il contrario e cioè che terapie di 1-2 settimane danno luogo più spesso a infezioni antibiotico-resistenti nei pazienti cui sono prescritte.

E’ importante sottolineare come, per quanto lo studio abbia delle basi scientifiche valide, va preso con le dovute cautele. Ogni soggetto ha una storia medica personale e deve necessariamente essere seguito secondo i canoni di cura consigliati dal proprio medico di fiducia.

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